Claudia Formiconi
Articolo William Faulkner un Nobel dimenticato

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13 Luglio 2017
William Faulkner un Nobel dimenticato


La scrittura sperimentale, densa di pathos e dalle forti sfumature psicologiche di William Faulkner è così attuale nel suo linguaggio scabro e minimalista e al contempo meticoloso nello stile.
Faulkner è, sicuramente, il narratore più moderno americano degli anni ’30 e si affianca a quel gruppo di scrittori del cosiddetto flusso di coscienza, Proust, Virginia Wolf, Joyce, Eliot, e il nostro Svevo, laddove le narrazioni elaborate da vari punti di vista subiscono salti temporali nello snodarsi della cronologia del racconto, in una sorta di flashback, la temporalità si azzera. I personaggi della vicenda, nella loro realtà transeunte, vivono il loro passato futuro presente. Il monologo interiore prevale su la storia stessa, l’individuo assurge a ruolo primario con tutto il suo bagaglio dei moti dell’anima, i sentimenti, le passioni, i turbamenti e i conflitti interiori. Assistiamo ad una notevole modificazione delle leggi grammaticali e ortografiche canoniche, interpunzioni abolite, parole che si fondono tra esse in una commistione oscura che danno luogo ad una linguaggio onirico, sospeso tra la trascendenza e l’immanenza.
L’opera letteraria di William Faulkner è un flatus vocis, un canto corale di anime, vive, morte, di un’America primordiale, la grande provincia, il cuore pulsante del nuovo mondo, che si fa portavoce di tutti quei malesseri, la corruzione, l’inclinazione al male, la decadenza, figlie dell’impietosa mannaia del fato sempre pronta a colpire, e di tutte quelle contraddizioni atte ad esplodere.
Ne L’urlo e il furore (The sound and the Fury, 1929), vi è tutto il dramma stoico dei Compson, una vecchia e privilegiata famiglia bianca del sud, nella contea immaginaria di Yoknapatawpha, della loro decadenza, narrata in quattro parti, con voci alternate, come l’assetto corifeo della tragedia greca, quasi a voler preconizzare l’imminente e ineluttabile sciagura.
E l’incredibile vicenda della famiglia Bundren e della loro paradossale odissea nell’intento di riportare la salma della vecchia signora Bundren, per suo espresso volere, nella terra primordiale, come doveroso rispetto dell’arcaica tradizione pionieristica del tempo in Mentre morivo (As I Lay Dying,1930), in un canto di voci monologanti in una narrazione macabra e dai risvolti quasi grotteschi.
E lo stile estremamente pulp che riscontriamo in Santuario (Sanctuary, 1931) dove la narrazione di Faulkner tende a rappresentare con spietato realismo, condito di pura violenza, tutto il degrado di una società malata. Diretto, egli stila una disamina cruda di un mondo fagocitato e imbrigliato dalle spire della corruzione e dai più bassi istinti del ventre umano. Santuario, è l’affresco di un’America ingorda e corrotta, dove il male affonda radici profonde. Sono gli anni della grande depressione e del proibizionismo, in quel frangente storico ed economico dove tutti cercavano di arrabattarsi per fare qualche dollaro per sopravvivere alla miseria, o, come per altri manigoldi, pronti ad approfittare della probità del prossimo. Il fuorilegge Popaye ed una masnada di piccoli gangster, mettono su una distilleria clandestina di whisky. E proprio questo luogo fuori dalle regole e squallido diverrà teatro di uno stupro, molto forte per l’epoca, da descrivere (non a caso il romanzo suscitò non poche polemiche). Qui Temple Drake, un’avvenente studentessa diciottenne, “dritta come una freccia nel vestitino succinto” accompagnata da un suo coetaneo, diviene bersaglio sessuale del degenerato Popaye che la violenta per sfregio con una pannocchia, per poter sopperire alla sua conclamata e non accettata impotenza, un affronto troppo sfacciato alla sua figura di maschio dominante. Ucciderà un suo complice, creando così il suo capro espiatorio, tanto per uccidere, ma il fato non perdona e alla fine dovrà rendergliene conto. Un affresco dalle tinte fosche e forti disegnano uno scenario di un realismo agghiacciante.
La vicenda parossisticamente, come in un mero processo morboso, precipiterà nel delirio mentale più abissale. Il fato che ha affiancato sin dall’inizio le sue creature le condurrà nella perdizione più becera. Popaye porterà con sé, come se il destino gliel’avesse imposta per eredità, la giovane Temple, lasciandola in un bordello, dove la stessa troverà l’ambiente naturale alla sua vera natura della perversione, vivrà ma nella vergogna più totale. Popaye, dunque, per ironia della sorte subirà la beffarda legge del contrappasso, "Forse è nell'istante in cui ci rendiamo conto, in cui ammettiamo che nel male vi è un disegno logico, è allora che moriamo".
La sua vena letteraria e la ricerca voluta della storia della sua terra fu fortemente incrementata, dai racconti sul bisnonno William Clarke Falkner che la famiglia stessa ha tramandato al piccolo William, attraverso il culto della narrazione, del mito molto caro al giovane scrittore. Il suo antenato, infatti, fu autore di alcuni romanzi che diedero l’incipit ad una serie di racconti familiari.
Tra gli altri romanzi più importanti ricordiamo: Sartoris (1929) dedicato alla figura del nonno e al mito dell’avo il colonnello Falkner e delle sue eroiche gesta nella Guerra di Secessione, Absalom, Absalom! (1936), dove emergono tutti quei tratti più intimi della poetica stilistico-letteraria di Faulkner, dalle sfumature che si tingono di cruda realtà, poesia, morte, vita, un drammatico ritratto dello scenario post bellico. The Wild Palms (1939), Una rosa per Emily (1949-50) tre racconti, una spietata critica alla provincia americana alla sua arretratezza e grettezza mentale, dove la presenza degli uomini è latitante, maschi volgari, ubriachi privi di spessore, inetti, proclivi alla delinquenza. Le donne sono grossolane, bisbetiche, o, diversamente divengono le vittime solitarie di un sistema falsato dall’ipocrisia, da ruoli sociali stabiliti a priori da spicciole convenzioni perbeniste, con l’impietosa sentenza dell’opinione pubblica sempre pronta ad additare. Cosicché Zilphia, Emily e la giovane e ingenua Juliet, conosceranno l’amaro sapore della solitudine, della cattiveria, dell’invidia e del tradimento sentimentale. Temi delicati che Faulkner con la sua acutezza e sensibilità ha saputo cogliere nel profondo dell’essere femminile. Insomma il ritratto di un’America puritana, che non perdona.
Figlio del sud, William ha vissuto un’infanzia serena tra i rigogliosi boschi del Mississippi, sotto la guida del padre. Ma il Mississippi è stata, altresì, terra segnata dal passato storico-sociale della schiavitù dei negri e delle loro continue umiliazioni. Il giovane, sensibile a tali tematiche, se ne interessò da subito e con convinta passione.
Una curiosità, il cognome originale del narratore americano è Falkner, ma per un errore di un editore, che stampò una sua opera aggiungendo la ‘u’, egli decise di firmarsi artisticamente, Faulkner.
Nel 1950, in ritardo di un anno, si reca assieme alla figlia a Stoccolma per ritirare il Nobel per la Letteratura.
Nel 1954 gli viene conferito il Premio Pulitzer.


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© Claudia Formiconi
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